A cura di Lorenzo Grassi
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Nei giorni della Liberazione di Roma lo slargo di piazza di Priscilla, tra le Catacombe e il muro di Villa Ada Savoia sulla sommità della ripida discesa che porta sino al ponte sull’Aniene, fu teatro di alcuni episodi rimasti poco conosciuti ma che ben rappresentano il clima di quelle ore nel quartiere Trieste-Salario. La prima testimonianza è quella scritta da Manlio Barbetti nel suo libro “Tremila passi sulla Salaria”. Un racconto che parte dal 4 giugno 1944.
“Lo Stato Maggiore di Kesselring aveva lavorato con cura alla pianificazione dello sganciamento, così che i reparti che dovevano attraversare Roma si muovevano su percorsi prestabiliti nei quartieri della città, che rappresentava tra l’altro un buon riparo diurno dal tormento dell’aviazione alleata. Il 4 giugno anche la piccola via Arbia fu usata come riparo da un reparto di fanteria su automezzi corazzati. Mia sorella li ricorda molto nervosi fare su e giù dagli automezzi manifestando insicurezza. Erano stretti tra case basse ma ben nascosti dal fogliame rossiccio dei ciliegi selvatici piantati ai lati della strada. Aspettarono che arrivasse il loro turno prima di girare sulla Salaria diretti al ponte sull’Aniene. Da quella parte il cielo, senza che si sentisse arrivare rumore di spari, veniva attraversato ogni tanto da sciami di punti luminosi che salivano segnalando la presenza dell’antiaerea tedesca”.
Le ore trascorrono e “nella notte tra il 4 e il 5 giugno chi abita vicino alla Salaria sente lo scalpicciare pesante di uomini in fuga con scarpe chiodate, rumore insolito e arcaico, come fossero gli Italici avversari di Silla in cerca di scampo sull’altura di Antenne, poi ancora motori, ma dalle prime luci del 5 non vi sono più passaggi dell’esercito in ritirata. Qualche abitante comincia ad affacciarsi sulla via dove sono attesi gli americani, tra loro è anche un giovane, classe 1923, che durante l’inverno è entrato in un gruppo della Resistenza. In tasca si è messo una pistola Beretta, un lascito dello sfacelo dell’8 settembre 1943, vuole vedere cosa succede al ponte. La Salaria di allora, seguendo ancora il percorso antico dopo Priscilla scende costeggiando il muro della villa reale mentre sul lato opposto sale la parete di tufo tanto da tenere in ombra la strada fino a che il sole non è alto. In fondo alla discesa la strada curva a destra salendo verso il ponte che resta nascosto fino all’ultimo”.
Ma la sorte è in agguato. “Quando è a metà della discesa – racconta ancora Manlio Barbetti – il giovane si accorge che a ridosso del tufo, nella sua ombra, è fermo un automezzo tedesco simile al gippone degli americani. Nessuno è a bordo, ma sul davanti è un soldato con le mani nel motore. I due sono ugualmente sorpresi, il tedesco afferra una bomba a mano lasciata sul sedile pronta all’uso, tira l’anello e la lancia senza lasciare passare i secondi di attesa. Il giovane punta la pistola, scalcia in avanti sulla discesa la bomba che gli è arrivata tra i piedi e spara con la sua Beretta. È esperto nel tiro ma non colpisce il tedesco che fugge verso il ponte mentre la bomba scoppia quando ormai è innocua per la distanza. Il giovane risale verso la biforcazione tra la Salaria e via di Tor Fiorenza dove sono in arrivo gli americani e si affianca a loro che si dispongono ad affacciarsi sul ciglio che domina il ponte sull’Aniene e la Salaria. Erano passate da poco le nove del mattino di una giornata perfetta di sole e di cielo azzurro intenso. Al termine di via Tor Fiorenza, sulla piazza Vescovio, sono già altri soldati e un gruppo di giovani e ragazzi curiosi di vedere cosa sarebbe successo”. Da qui prenderà il via la tragica ed epica vicenda di “Ughetto” Forno, ma questa è un’altra storia.
Tornando invece a piazza di Priscilla, passiamo alla testimonianza di Piero Ferreri, che nel 1944 aveva 12 anni e abitava nel grande palazzo dove risiedeva anche il ministro-ambasciatore fascista Dino Alfieri, al quale il regime nazista aveva fornito un bunker tubolare. “Il 5 giugno 1944 di prima mattina, verso le 7.30, erano arrivati in zona i soldati americani – racconta Ferreri – ad un certo punto, risalendo dalla Salaria, arrivò a tutta velocità su piazza di Priscilla una camionetta Volkswagen dei tedeschi che, frenando disperatamente, si fermò proprio in mezzo a due carriarmati. Alcuni soldati americani si lanciarono dall’alto dei mezzi corazzati sulla camionetta per fermare un tedesco che brandiva una granata. Ricordo distintamente le tante mani dei soldati americani che tenevano bloccata quella alzata del militare tedesco”.
“I tedeschi a bordo della camionetta furono fatti prigionieri e messi nel portone del nostro palazzo. Gli americani si resero conto che la situazione in zona era ancora pericolosa. Una mezz’ora dopo, infatti, un’altra auto dei tedeschi risalì la Salaria. Questa volta, però, si accorse in tempo della presenza degli americani – ricorda Ferreri – e provò a sterzare accostando a metà della salita contro il muro sulla Salaria. Dall’alto un carroarmato aprì subito il fuoco con la mitragliatrice e colpì i tedeschi che si arresero. Alcuni di loro, feriti, furono portati sempre nel portone del nostro palazzo in piazza di Priscilla. In seguito arrivarono anche dei civili, vestiti e armati come cacciatori, che dicevano di essere partigiani. Uno di loro entrò nel palazzo e voleva uccidere i tedeschi, ma fu sonoramente fermato con un grande schiaffo da un ufficiale americano”.
Piazza di Priscilla era già stata scenario di un episodio di guerra dopo l’8 settembre 1943, quando i soldati della Divisione Piave con base a Parco Nemorense avevano catturato un gruppo di soldati tedeschi. “Li fecero schierare in doppia fila al centro dello slargo – racconta sempre Piero Ferreri – ordinando loro di sdraiarsi a terra e consegnare tutto ciò che avevano. In quel momento, però, risalì dalla Salaria un plotone più consistente di tedeschi. Ne seguì una breve sparatoria, nel corso della quale rimasero feriti due tedeschi. Ma alla fine gli italiani furono costretti alla resa”.
A pochi metri di distanza, nelle Catacombe di Priscilla, le suore benedettine nascosero centinaia di perseguitati con la complicità dell’ambasciatore del Reich presso la Santa Sede, Ernst von Weizsäcker. Un salvataggio svolto sotto la guida di don Belvederi e con la collaborazione di Giulio Andreotti (che all’epoca era presidente della Fuci, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana). La rete di assistenza produceva false carte d’identità per gli ebrei e per gli altri rifugiati grazie ad una piccola tipografia che era servita per le pubblicazioni di Archeologia cristiana. I documenti venivano stampati e vidimati con i timbri delle città già liberate e questa rete sembra fosse stata ideata proprio da Giulio Andreotti, che provvedeva alla stampa e alla consegna dei documenti agli ebrei nascosti in Vaticano. A Priscilla in caso di pericolo scattava un segnale prestabilito. I rifugiati, attraverso un passaggio segreto, dovevano andarsi a nascondere nel dedalo di gallerie delle Catacombe, dove restavano sino a quando non cessava l’allarme.
Sempre nelle Catacombe di Priscilla, il 28 dicembre 1943, otto ragazze romane della squadriglia “Scoiattoli”, guidate da Giuliana di Carpegna, pronunciarono segretamente davanti all’altare della “Cappella greca” la loro Promessa scout, ridando vita all’Associazione Guide Italiane. Protagonista della rinascita delle associazioni scautistiche – sciolte dal regime fascista – fu già nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943 Padre Agostino Ruggi d’Aragona che poi accolse la Promessa di Giuliana di Carpegna e del primo nucleo delle dirigenti dello scoutismo femminile (guidismo) in Italia.
In zona – pochi chilometri oltre sulla Salaria – prese le mosse anche una particolare formazione militare impegnata a Roma nella Guerra di Liberazione: la “Banda Federico”. A differenza di altre formazioni di derivazione militare – composte da personale sbandato dopo l’8 settembre 1943, che poi si era ritrovato intorno ai vecchi e ai più recenti comandanti – questa banda fu costituita con l’adesione della quasi totalità dei militari dell’Aeronautica che operavano nell’allora Aeroporto del Littorio (poi dell’Urbe) senza soluzione di continuità nel comando. L’attività contro i tedeschi iniziò la mattina del 9 settembre 1943 con un combattimento contro le forze germaniche che avevano tentato di catturare gli automezzi dell’aeroporto lungo la Salaria. Il personale dello scalo, guidato dal Comandante Angelo Federici e appoggiato da un Reparto di Bersaglieri, sostenne un lungo e aspro combattimento alla fine del quale il nemico si ritirò lasciando sul terreno morti e feriti. Le armi catturate, insieme a quelle recuperate nell’aeroporto, furono nascoste in un hangar. Qualche tempo dopo, però, vennero sequestrate dalla polizia germanica.
La “Banda Federico” ebbe come prima sede operativa clandestina gli scantinati della scuola “Sandro Mussolini” (attuale Istituto comprensivo Via Volsinio) davanti al Parco Nemorense, che era occupata dalla Divisione Piave. In seguito al disarmo della Piave, la formazione si trasferì in via del Tritone 201. Questa banda si prodigò in particolare nell’aiuto alimentare (grazie ai viveri recuperati in aeroporto) e nel rilascio di congedi, lasciapassare e altri documenti falsificati ai militari che dovevano lasciare Roma. Oltre a piccoli colpi di mano allo scalo del Littorio per recuperare viveri e armi – vista la conoscenza dell’impianto – la banda cercò di disturbare l’attività tedesca con atti di sabotaggio su attrezzature logistiche e mezzi. In una delle azioni, nell’ottobre 1943, furono sottratti due autocarri (già della Piave), poi consegnati alla Regia Guardia di Finanza di viale XXI Aprile. Nella convinzione che l’arrivo degli Alleati fosse imminente e che presto si sarebbe dovuto rioccupare l’aeroporto, fu disposto un servizio di sorveglianza nei suoi dintorni. A dicembre 1943 la banda fu aggregata al Fronte Clandestino dell’Aeronautica e prese il nome “Federico” da quello di copertura del suo Comandante.