A cura di Lorenzo Grassi
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Nel mirino del primo bombardamento di Roma, il 19 luglio 1943, come «obiettivi militari» c’erano gli snodi ferroviari e gli aeroporti della Capitale. Strutture nevralgiche per la logistica bellica, soprattutto per l’invio di rinforzi (materiali e truppe) verso Sud, dove solo nove giorni prima era avvenuto lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Ai confini dell’abitato di Roma, sulla via Salaria, si trovavano due obiettivi contigui: l’Aeroporto del Littorio (il cui nome, dopo il 25 luglio 1943, sarà poi cambiato in Aeroporto dell’Urbe) e lo Scalo ferroviario del Littorio (attuale Roma Smistamento). Qui, dunque, si accanirono i bombardieri Usa.
Alle 11 del mattino gli ordigni iniziarono a cadere sullo Scalo ferroviario, colpendo anche alcuni treni carichi di munizioni, con il risultato di 40 minuti di esplosioni ininterrotte e 48 ore di incendi. Tanto che ai residenti del vicino quartiere Savoia (Trieste-Salario) fu consigliato dalle autorità di trascorrere la notte a Villa Umberto I (Villa Borghese) per allontanarsi dai fumi e dal rischio di ulteriori esplosioni. I B-24 Liberator si lasciarono dietro oltre 60 carri ferroviari distrutti, binari divelti, tralicci e magazzini in pezzi. Dopo il raid l’impianto non fu più in grado di supportare il traffico ferroviario merci pesante.
Verso mezzogiorno fu la volta del limitrofo Aeroporto del Littorio, che era già stato mitragliato – insieme a quello di Ciampino, con il quale condivideva i decolli dei bombardieri della Luftwaffe e degli aerosiluranti italiani – nella notte del 17 luglio, quando erano entrati in azione i B-25 Mitchell e i B-26 Marauder scortati da caccia P-38 (in questa operazione morirono 22 militari e furono distrutti una decina di aerei). L’attacco del 19 luglio fu ben più massiccio, con il lancio in nove ondate di centinaia di bombe da 100 e 250 kg. Il campo di decollo fu ridotto ad una distesa di crateri, con gli hangar, le officine e gli edifici in macerie. L’attività aviatoria fu totalmente compromessa.
Secondo diverse fonti le vittime del bombardamento sul doppio obiettivo dello Scalo e dell’Aeroporto del Littorio «non furono meno di 200». Lo stesso Mussolini – come ricorda Alfredo Stinellis nel suo libro “Storia di un Aeroporto” – di ritorno in aereo dall’incontro con Hitler a Feltre, si avvicinò da Nord ad una «Roma come avvolta in una grande nuvola nera. Era il fumo che saliva dalle centinaia di vagoni della stazione del Littorio in fiamme».
Uno degli episodi più tragici nel corso del raid avvenne nel sottopasso pedonale che dalla Salaria collegava l’Aeroporto con lo Scalo, ed era stato indicato come luogo di ricovero sicuro in caso di attacco aereo. Qui, dopo il suono della sirena, avevano trovato precipitosamente riparo una dozzina di ferrovieri e una quarantina di avieri. Il destino beffardo volle che la zona del tunnel fosse centrata da una bomba di 500 kg, che provocò una strage e rese difficile persino procedere al riconoscimento di molti dei resti umani ridotti a brandelli.
Sull’identità degli avieri non risulta divulgata alcuna informazione (ma è da verificare la presenza di documentazione all’Archivio storico dell’Aeronautica militare); mentre dei ferrovieri sono noti 12 nomi. Sei furono incisi su una lapide posizionata all’ingresso del tunnel sulla Salaria, di fronte all’accesso moderno dell’Aeroporto dell’Urbe. Sulla lapide si legge: “Ai compagni Ciocchetti Giovanni, Costa Pietro, Diana Ippolito, Sperduti Giuseppe, Matteucci Amico, Feriozzi Galliano. Caduti il 19 luglio 1943 mentre serenamente accudivano al proprio lavoro in questo impianto. Il personale della rinata Officina Rialzo Smistamento a memoria pose”. Nel dopoguerra, per alcuni anni, si è celebrata sul luogo una doppia cerimonia: il 18 luglio promossa dall’Aeronautica militare in ricordo degli avieri e il 19 dalle Ferrovie per i propri operai. Difficile capire perché uomini uniti nella morte siano finiti divisi nella memoria.
Ma c’è di peggio. Perchè in seguito le cerimonie sono state sospese, di comune accordo tra Rfi e Ministero della Difesa, sembra per motivi di «opportunità politica e costi economici». Una decisione che ha provocato il forte risentimento dei ferrovieri più anziani, ora in pensione. In seguito, con la chiusura del sottopasso e i lavori di ristrutturazione mai completati, la targa di marmo con i 6 nomi – come mi ha segnalato il ferroviere e appassionato storico Massimo Taborri – è stata spostata su una parete laterale dell’edificio della Squadra Rialzo, all’interno di Roma Smistamento. Qui giace dimenticata, irraggiungibile e invisibile per la vegetazione, completamente sbiadita.
Qualche centinaio di metri più a Nord, alla fine di via di Villa Spada sul lato di via Cortona, un secondo monumento – con una piccola ara, una lanterna e un palo porta bandiera – riporta altri 6 nomi con la scritta: “A ricordo dei ferrovieri caduti nei bombardamenti aerei dell’A.D. MCMXLIII. Rosati Domenico, Lepore Ugo, Rossi Orlando, Valente Antonio di Daniele, Delle Fratte Luciano, Tanzilli Benedetto”. Di due delle vittime (Lepore e Delle Fratte) sono presenti anche le fotografie.
Anche questo monumento è in abbandono: circondato da erbacce, sterpi e immondizia, con il tricolore che sventola sdrucito. Nel 2018 sono andato a dare una ripulita al luogo, per quanto possibile, in occasione del 75° anniversario del bombardamento del 19 luglio 1943. Inutile sottolineare come entrambe le vestigia della memoria di questa strage – la lapide (magari da ricollocare in luogo più consono) e il monumento – meriterebbero ben altro rispetto, considerazione e valorizzazione. Più avanti potete leggere un aggiornamento sulla situazione.
Del tragico episodio avvenuto nel sottopasso sulla Salaria non esistono cronache dettagliate. Nessuno dei Caduti è stato decorato e nessun gesto eroico è stato ritenuto degno di citazione. L’unica narrazione è stata scritta da Mauro Campo, che nei primi anni Duemila – in occasione di una Giornata del Ferroviere – ha raccolto alcune storie («tra realtà e leggenda») su quanto avvenuto il 19 luglio 1943. «Purtroppo le mie fonti oggi non sono più fra noi – riferisce Campo – e alcuni di loro sono morti con la rabbia per l’oblio contemporaneo nei confronti della loro tragica gioventù». Tra i tanti racconti, Campo ne ha ricostruito in particolare uno – riportato qui di seguito – sul quale le testimonianze sono convergenti. Un episodio rimasto «nascosto» anche perchè era imbarazzante per il regime far sapere che si utilizzassero le officine meccaniche Fs per riparare gli aerei incidentati della Regia Aeronautica.
«Quel maledetto 19 luglio 1943 faceva caldo – racconta Mauro Campo, immedesimandosi nell’aviere meccanico Tommasino – e c’era da mettere a posto il carrello del Savoia che ancora una volta si era piegato in atterraggio e non perché il pilota non fosse accorto ma perché, gli avevano spiegato, il braccio di torsione è talmente elevato che flette l’acciaio! Sarà, ma l’aereo era lì sbilenco e montato su cavalletti e lui ancora una volta doveva andare alle officine delle ferrovie che si trovavano di fronte e chiedere al capo officina Giuseppe, un burbero foggiano, di fargli usare il tornio per rettificare e tornire uno stelo di acciaio. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima, così almeno credeva. Si mise in canottiera (era la sua divisa di lavoro) e con lo stelo di acciaio attraversò la Salaria e percorrendo il sottopasso arrivò alle officine. Chiese di Giuseppe e invece trovò Romolo, un vecchio operaio della Squadra Rialzo (disponibile e schietto). «Che ti serve? Ma serve a te o ai capoccioni?». Ma ti pare che serve a me rifare lo stelo di un carrello? «Se ti serviva a te lo facevo subito, se serve ai capoccioni allora devo prima finire un lavoro su un’asse. Un paio di ore e sei di ritorno, sai i miei capoccioni sono più tosti dei tuoi». Cosa successe dopo non lo sappiamo, mancano le testimonianze. Ma caddero le bombe senza preavviso. Sicuramente anche Romolo e Tommasino corsero verso il sottopasso che divideva lo Scalo Littorio dalla Salaria: era il rifugio antiaereo previsto per tali evenienze, ma fu centrato da una bomba da 500 kg e perirono tutti. Non fu possibile nemmeno riconoscere i corpi. Fu trovato solo uno stelo di acciaio aeronautico, presumibilmente di un Savoia Marchetti 74. Chissà come finito lì».
In mezzo ai grandi fasci di binari, sul tetto di una delle “sale di controllo” di Roma Smistamento, spicca ancora una sirena antiaereo del periodo bellico. Ha suonato la mattina del 19 luglio per avvertire i lavoratori dell’arrivo dei bombardieri americani. Questo impianto di allarme non risulta nell’elenco ufficiale stilato all’epoca dal Ministero dell’Interno, ma potrebbe essere stato aggiunto direttamente su iniziativa dalle Ferrovie.
Aggiornamento – La riscoperta della memoria
Nel 2021, dopo tanto abbandono, è tornato finalmente l’interesse sull’episodio di Roma Littorio. La lapide “invisibile” che si trovava su una parete laterale dell’edificio della Squadra Rialzo è stata spostata bene in vista sulla facciata rivolta verso i binari. Ma soprattutto, in occasione del 78° anniversario del bombardamento, le Ferrovie insieme ad un gruppo di associazioni (Anpi Roma, Dopolavoro Ferroviario Roma, Osservatorio Sherwood, Retake Roma e TWM Factory) e rappresentanti istituzionali del Campidoglio e del Municipio III hanno completamente riqualificato l’aiuola che ospita il monumento e il 19 luglio 2021 si è tenuta una partecipata cerimonia con alzabandiera e suono del silenzio in ricordo dei ferrovieri caduti.
La testimonianza di Michelangelo Chiurchiù
Sull’episodio della strage nel tunnel tra Aeroporto e Scalo del Littorio, ci è poi giunta l’importante testimonianza di Michelangelo Chiurchiù:
“Sono il figlio di un carabiniere – Mario Chiurchiù – che si è salvato fortunosamente dal bombardamento del 19 luglio 1943. Ha fatto piacere a me e ai miei 4 fratelli e 3 sorelle aver ritrovato conferma sul suo blog dei dettagli che mio padre ci raccontava sempre con le lacrime di commozione. La sirena, il tunnel che fino a qualche anno fa era ancora aperto e che lui ci ha portato a visitare, il particolare della bomba di 500 kg che è scoppiata sulla sua testa. Per un soffio, ci raccontava, la bomba non ha sfondato il pavimento su cui lui e i suoi compagni poggiavano perché sotto passavano i fili dell’alta tensione. E lì veramente sarebbe finita! Non mi risulta che tutti quelli che stavano in quel tunnel di passaggio siano morti… Ci fu angoscia, urla e spavento perché la grossa bomba chiuse tutti i passaggi e i più credettero di fare la fine dei topi. Mio padre diede coraggio ai compagni e con un attrezzo che portava con sé – un ferro o una baionetta non ricordo bene – riuscì ad aprire un varco dopo la fine del bombardamento.
Babbo poi ci raccontò anche di un episodio che ci scosse tutti. Nella concitazione dell’allarme, incoraggiò un collega carabiniere più anziano, a entrare con lui nel tunnel ma, ci diceva, aveva timore di entrare e di fare la fine dei topi e si sistemò alla meglio lì fuori. Una bomba cadde proprio dove si trovava. Fu mio padre dunque che, alla fine del bombardamento quando vennero la moglie e i figli a cercarlo, si ricordò del luogo dove l’aveva lasciato e, scavando, lo ritrovarono. Nel 1996 riuscii a raggiungere il figlio di quel carabiniere collega di mio padre che ricordava del ritrovamento e di babbo che li aveva guidati. Fu commovente il pranzo organizzato da questo “orfano” a Ronciglione – che nel frattempo era diventato nonno – e che volle a tutti i costi offrire un momento di ricordo e di convivenza a mio padre, mia madre e alcuni di noi figli. E con quanta sofferenza ci raccontò la vita dura di lui e della sua famiglia che, senza sostegno alcuno nonostante il padre fosse morto in servizio, dovette affrontare il dopo-guerra. Nel 1997 mio padre è scomparso: avrebbe rivisto volentieri (tra le lacrime) le vecchie foto del bombardamento, del tunnel e soprattutto della sirena che ancora c’è e sta lì. A quella doveva la sua vita e a quella noi dobbiamo la nostra!“.