Storia

Andreotti a Villa Ada

A cura di Lorenzo Grassi
© lorenzograssi.it

Il 16 aprile del 1945, esattamente 76 anni fa, Giulio Andreotti convolava a nozze con Livia Danese nella chiesa delle Catacombe di Priscilla sulla via Salaria. Nella foto, accanto alla coppia, ci sono le rispettive madri (Rosa e Gertrude) e dietro i fratelli di Livia, Alberto e Gaetano, e lo zio don Giulio Belvederi. Il rapporto di Andreotti con le Catacombe di Priscilla è uno dei capisaldi della sua biografia e in seguito, in più occasioni, avrà modo anche di incrociare più volte la sua storia con quella del parco romano di Villa Ada (già Villa Savoia).

Il matrimonio alle Catacombe di Priscilla (foto giulioandreotti.org).

Facciamo un passo indietro. Giulio Andreotti nasce a Roma il 14 gennaio 1919, da Filippo Alfonso, maestro elementare morto meno di tre mesi dopo, e Rosa Falasca. È l’ultimo di tre figli. All’inizio abita in via dei Prefetti in casa della zia Mariannina, prima di trasferirsi in via Bisagno, al quartiere Trieste-Salario. Frequenta le scuole Elementari in piazza della Maddalena e in via della Palombella; poi il Ginnasio e il Liceo al “Tasso” e al “Visconti”.

Don Giulio Belvederi (foto giulioandreotti.org).

Fin dagli anni Quaranta – come ha ricordato il professore Danilo Mazzoleni nel suo scritto “Il senatore Andreotti e la Catacomba di Priscilla” (Andreottiana, Roma 2009) – uno dei luoghi ai quali erano più legati Andreotti e la moglie erano proprio le Catacombe e il convento della Suore benedettine di Priscilla. Questo perché Livia Danese, romana, era la nipote di don Giulio Belvederi (1882-1959), fondatore delle Suore benedettine di Priscilla, teologo, archeologo, amico e compagno di studi di Angelo Roncalli (futuro Giovanni XXIII). Andreotti – ricorda ancora Mazzoleni – aveva avuto modo di conoscere già nel 1935 don Giulio Belvederi durante una gita alle Catacombe di Priscilla con alcuni compagni di liceo. Ma il fatto che Belvederi fosse lo zio di Livia incrementò il legame di amicizia e di stima reciproca.

Giulio Andreotti nel 1942 (in qualità di presidente della Fuci) insieme a Pio XII (foto giulioandreotti.org).

Sono un cattolico romano – amava ripetere Andreotti – ho visto e frequentato le Catacombe, i segni cristiani mi hanno colmato sin da bambino. Mi rendo conto che sono stato formato alla memoria dei primi cristiani, a vedere come questo albero è nato su enormi sacrifici. Questo comporta grandissime responsabilità, però porta anche delle certezze. Come questo nel conto finale servirà non so”. Le Catacombe di Priscilla rimasero per tutta la vita un punto di riferimento per la famiglia, tanto che quando Andreotti l’estate restava solo a Roma per lavorare, mentre il resto della famiglia era in vacanza, alloggiava nel convento delle Suore di Priscilla. Anche la famosa frase di Andreotti a Giovanni XXIII, “Santità Lei non conosce il Vaticano” fu detta dallo statista al Papa – come segnala sempre Mazzoleni – nel corso di un colloquio che aveva per oggetto il monastero delle Suore di Priscilla. La proprietà del monastero, infatti, era stata ceduta alla Santa Sede in via cautelare durante l’occupazione nazista di Roma, per salvaguardare il monastero da eventuali requisizioni. Dopo la guerra ci vollero molti anni prima che il Vaticano restituisse la proprietà alle Suore.

L’ingresso originario delle Catacombe di Priscilla sulla Salaria (foto Pontificia Commissione di Archeologia Sacra).

Importante fu il ruolo di Andreotti a Priscilla anche durante il periodo bellico. Le benedettine di Priscilla, infatti, nascosero centinaia di perseguitati con la complicità dell’ambasciatore del Reich presso la Santa Sede, Ernst von Weizsäcker. Un salvataggio svolto sotto la guida di don Belvederi e con la collaborazione di Giulio Andreotti (che all’epoca era presidente della Fuci, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana). La rete di assistenza riusciva a produrre anche false carte d’identità per gli ebrei e altri rifugiati, poiché le Suore avevano una piccola tipografia che era stata al servizio delle pubblicazioni di Archeologia cristiana. I documenti venivano stampati e vidimati con i timbri delle città già liberate e questa rete sembra fosse stata ideata proprio da Giulio Andreotti, che provvedeva alla stampa e alla consegna dei documenti agli ebrei nascosti in Vaticano. A Priscilla, in caso di pericolo, scattava un segnale prestabilito. I rifugiati, attraverso un passaggio segreto, dovevano subito andarsi a nascondere nel dedalo di gallerie delle Catacombe, dove restavano sino a quando non cessava l’allarme. Il contatto tra don Belvederi e l’ambasciatore Weizsäcker evitò comunque le perquisizioni nella casa delle Suore benedettine di Priscilla.

Il dedalo di gallerie con le sepolture (foto Catacombe di Priscilla).

Da segnalare anche la testimonianza di Alberto Ronchey (nel libro “Il fattore R” conversazione con Pierluigi Battista, Bur 2011): “Nella Resistenza romana bisognava stare molto attenti. Ogni azione doveva essere ponderata. Nel periodo dell’occupazione nazista, per esempio, io e Guido Zatterin fummo incaricati di nascondere due disertori della brigata slovacca ricercati dalla Gestapo, ospitati nelle Catacombe di Priscilla, in via Salaria. Appena entrati, con Ugo scoprimmo che quel posto era pieno di ebrei, rifugiati lì. Anche per questo non condivido le polemiche retrospettive sul ruolo di Pio XII”.

Padre Agostino Ruggi d’Aragona e le otto pioniere dello scoutismo femminile in Italia.

Il 28 dicembre 1943 otto ragazze romane della squadriglia “Scoiattoli” (qui il loro quaderno), guidate da Giuliana di Carpegna, pronunciarono segretamente davanti all’altare della “Cappella greca” delle Catacombe di Priscilla la loro Promessa scout, ridando vita all’Associazione Guide Italiane. Le associazioni scautistiche erano state contrastate dal regime fascista che per l’educazione della gioventù aveva fondato l’Opera Balilla. Così nel 1927 ne era stato imposto lo scioglimento e dal 1928 avevano cessato ogni attività. Protagonista della rinascita, nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre del 1943, era stato Padre Agostino Ruggi d’Aragona che poi aveva accolto la Promessa di Giuliana di Carpegna e del primo nucleo delle dirigenti dello scoutismo femminile (guidismo) in Italia. Il 21 aprile 1944, sempre nelle Catacombe di Priscilla e ancora in clandestinità, pronunciarono la Promessa anche le giovani della squadriglia degli “Alcioni”.

Il palazzo al civico 422 della via Salaria, a pochi passi dalle Catacombe di Priscilla.

Finita la guerra, prima il matrimonio tra Giulio Andreotti e Livia Danese celebrato come già detto il 16 aprile 1945 nelle Catacombe di Priscilla e poi, come si evince dal nominativo riportato su un elenco telefonico del 1946, la residenza nel palazzo poco distante al civico 422 di via Salaria.

Andreotti nel 1947 con la figlia Marilena, la moglie Livia e don Belvederi a Priscilla (foto giulioandreotti.org).

Nella sua carriera politica Giulio Andreotti tornerà ad occuparsi di Villa Ada il 18 maggio 1958 quando, come ministro delle Finanze del Governo democristiano guidato dal presidente del Consiglio Adone Zoli, consegnerà le chiavi di una parte del parco al Sindaco Urbano Cioccetti per il passaggio di proprietà dal Demanio dello Stato al Comune di Roma. Un impegno verde di facciata, considerato che un mese dopo – il 27 giugno 1958 – la Giunta Cioccetti rilancerà il progetto speculativo per la realizzazione del gigantesco albergo Hilton sulla collina di Monte Mario.

Giulio Andreotti e il Sindaco Urbano Cioccetti il 18 maggio 1958 a Villa Ada (foto Istituto Luce).

«Non potendo vantare come successi della loro amministrazione, né il fallimento del nuovo Piano regolatore dopo 4 anni di discussioni, né la sistematica rovina delle zone verdi culminata con la distruzione di Villa Chigi, né l’incipiente crisi edilizia e la contemporanea permanente mancanza di case, né i 600 miliardi regalati in 10 anni agli speculatori delle aree fabbricabili – denunciava Antonio Cederna il 27 maggio 1958 nel suo scritto “Il Fronte del verde” – i democristiani romani hanno pensato bene di celebrare, domenica scorsa con una breve arcadica cerimonia, quella che è stata definita “la cessione da parte dello Stato al Comune” di Villa Savoia e la sua “destinazione a parco pubblico”. La solita buona stampa ha inneggiato alla previdenza del ministro delle Finanze Andreotti e del sindaco Cioccetti, alla loro sollecitudine per i bisogni della cittadinanza, nascondendo la verità, cioè che si tratta di un altro grosso colpo al patrimonio naturale di Roma, primo passo verso lo smembramento definitivo del suo parco più grandioso. Il nuovo parco pubblico pre-elettorale è durato esattamente un’ora e mezza, dalle 10.30 alle 12 di domenica 18 maggio. Oggi nessuno vi può più entrare: la parte ceduta al Comune comprende il Monte Antenne, del tutto impraticabile e non confinante con nessuna strada pubblica, e una porzione marginale della Villa Savoia vera e propria, composta da due lunghe e strette colline irte di rovi e arbusti, divise da un avvallamento profondo: solo lunghi e costosissimi lavori la potranno trasformare in un poco razionale e poco efficiente parco pubblico. La parte di gran lunga migliore nucleo centrale del gran parco, confinante con via Salaria, via Panama, San Filippo Martire, è rimasta ai Savoia». Villa Ada sarebbe poi stata aperta al pubblico – parzialmente – solo il 20 novembre 1960.

Andreotti e Onesti esaminano il plastico dello stadio Olimpico (foto giulioandreotti.org).

Giulio Andreotti tornerà a legare per altre due volte il suo nome a quello di Villa Ada. La prima in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960, quando sarà artefice dei grandi lavori infrastrutturali che cambieranno il volto della Capitale. Sarà Andreotti, infatti, a gestire il passaggio al Campidoglio del comprensorio verde intorno al Forte Monte Antenne, da destinare a campeggio. Ma il suo operato aleggia anche su un altro episodio: il definitivo acquisto da parte dell’Egitto dell’ex Palazzina Reale di Villa Savoia, il 6 maggio 1997, quando curiosamente né il Comune di Roma né il Ministero dei Beni culturali si fecero avanti per far valere il diritto di prelazione per l’acquisto pubblico dell’edificio al prezzo di 25 miliardi di lire, consentendo così l’alienazione definitiva ad un Paese straniero di un palazzo di grande importanza storica e artistica per l’Italia.

L’ex Palazzina Reale di Villa Savoia, attuale sede dell’Ambasciata d’Egitto.