A cura di Lorenzo Grassi
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Lo speco di un acquedotto romano di duemila anni fa trasformato in rifugio antiaereo per proteggersi dai bombardamenti durante la Seconda Guerra mondiale. Una vestigia bellica più unica che rara per la sua originalità. A riscoprirla nelle viscere di Tivoli è stato un team dell’Associazione Sotterranei di Roma, guidato da Luca Messina e Federico Bruschini: insieme da anni si occupano di ricostruire l’esatto tracciato di opere grandiose che – con spettacolari ponti, eleganti arcuazioni e lunghissimi condotti in galleria – dall’alto corso del fiume Aniene trasportavano la preziosa acqua per decine e decine di chilometri sino al cuore di Roma.
Mentre erano alle prese con lo studio di uno speco negli scantinati di una palazzina di viale Mannelli – attribuito nel 1986 all’Acquedotto Marcio dall’archeologo Zaccaria Mari della Soprintendenza per l’Area Metropolitana di Roma, ma ora sotto verifica di attribuzione con nuove misurazioni ad opera degli speleoarcheologi di Sotterranei di Roma – Messina e Bruschini si sono imbattuti in un ritrovamento inatteso. Scesi nelle cantine (grazie alla cortese disponibilità del proprietario Maurizio Pozzilli), entrati nell’antico acquedotto attraverso un tunnel e una breccia, hanno percorso poche decine di metri trovandosi di fronte ad una curiosa “barriera”.
Due mezze pareti costruite con dei foratini sui lati del condotto che, sfalsate in rapida sequenza, costringono ad uno scomodo slalom per poter proseguire. Un sistema caratteristico e dalla funzione inequivocabile: quella di schermo “antisoffio” nelle strutture dedicate alla protezione antiaerea. Le mezze pareti infatti, pur consentendo il passaggio delle persone, avrebbero invece “spezzato” il lungo acquedotto romano e attutito gli effetti diretti – spostamento d’aria e spargimento di schegge – provocati dallo scoppio di una bomba nelle vicinanze.
Un ambiente angusto e claustrofobico, che era stato reso percorribile in passato grazie alla rimozione degli accumuli di calcare che avevano via via riempito l’antico acquedotto. È probabile che un accesso fosse in direzione Est nelle vicinanze della Casa del Mutilato di Guerra; mentre sul lato opposto si proseguiva verso una seconda uscita nella tratta di speco documentata nel 2009 durante i lavori alla sede del Tribunale. Diverse testimonianze avevano riferito della realizzazione e dell’utilizzo del rifugio da parte degli abitanti della zona di viale Mannelli – stipati lì sotto per giorni al freddo, con la fame e la paura – ma nel dopoguerra i margini del condotto erano stati interrati per proteggere gli scantinati, così la memoria di quei luoghi si è affievolita. Sino alla riscoperta dei ricercatori di Sotterranei di Roma.
Il riadattamento a rifugio dell’acquedotto romano sotto viale Mannelli fu opera dell’intraprendenza di alcuni privati cittadini lungimiranti, mentre secondo la documentazione conservata nell’Archivio storico di Tivoli – e divulgata nel 2015 dal curatore, Mario Marino – altre due tratte dello stesso acquedotto (quella sotto i Villini Arnaldi e quella di Villa Braschi, poi in uso esclusivo ai militari) erano state indicate come ricoveri pubblici nel progetto di protezione antiaerea predisposto dal Comune alla fine del 1941. Un progetto che si riprometteva di sfruttare principalmente «le numerosissime grotte scavate nel sottosuolo della città, al di sotto dei fabbricati o nelle vicinanze, adattabili a ricoveri antiaereo in considerazione della loro notevole profondità al di sotto del piano stradale (8-9 metri) e della compattezza e durezza della roccia nella quale sono scavate».
I carteggi attestano che a Tivoli la predisposizione delle strutture di protezione antiaerea fu tardiva e insufficiente, basata su una dozzina di grotte e gallerie. Solo la Caserma PAI nell’ex stabilimento Pantanella ebbe un bunker ben progettato ad hoc dall’ingegnere Emo Salvati. La popolazione per scampare all’arrivo delle bombe che veniva annunciato dalla sirena sulla torre civica si vide costretta ad arrangiarsi. Insieme agli scantinati del centro abitato, furono sfruttati i grottoni di Villa Gregoriana e le altre cavità presenti sulle pareti degli orridi dell’Aniene, il traforo in via degli Stabilimenti e i seminterrati delle cartiere. E ancora si cercò riparo nei tunnel ferroviari della Roma-Pescara, in particolare quello di Monte Catillo a ridosso della stazione, e nella condotta idrica non più in uso della Castagnola.
A marzo del 1944 la realizzazione dei ricoveri pubblici era ancora in stallo, in attesa di finanziamenti. Erano stati allestiti solo gli impianti di illuminazione e mancavano le opere sussidiarie di completamento. Anche i ricoveri realizzati dai privati erano pericolosamente privi dei puntellamenti di sicurezza, per mancanza di legname. Tutti i rifugi erano poi solo “anticrollo” e nessuno “alla prova” in grado di resistere allo scoppio ravvicinato di un ordigno. Così il massiccio bombardamento condotto in due ondate dai B-25 Mitchell degli Alleati nella mattina del 26 maggio 1944, a ridosso della Liberazione di Roma, provocò una terribile strage: 464 morti e il 40% degli edifici civili danneggiati. «Dal cielo terso e cristallino – ha scritto nel dopoguerra lo storico Mosti – terrificanti ordigni di distruzione s’abbatterono sulla città, recando la morte quando tutto d’intorno era un inno alla vita».
Il ricovero realizzato nel profondo acquedotto romano, pur trovandosi a pochissima distanza dall’obiettivo del raid – che era lo svincolo della Tiburtina vicino a piazza Garibaldi – dimostrò un’ottima resistenza e non riportò alcun danno. Le bombe non risparmiarono invece le chiese del centro storico, l’ospedale nel Convitto Nazionale e quelli che oggi sono siti Unesco. Come la monumentale Villa d’Este (dove i cimeli più preziosi erano stati messi in salvo in una galleria scavata nella roccia) che si ritrovò dentro la “target area” e la zona archeologica di Villa Adriana, per sua sfortuna vicina allo stabilimento Pirelli. Basti pensare che tra le antiche vestigia romane, i primi di giugno del 1944, le truppe tedesche e gli Alleati si scambiarono maldestri colpi di artiglieria a terra, che hanno lasciato segni indelebili sui ruderi, a perenne monito dell’orrore assoluto della guerra.
Perché le bombe colpirono Tivoli?
I residenti di Tivoli, insieme agli storici e ai ricercatori, si sono sempre chiesti perchè la cittadina fu messa nel mirino dei bombardieri, pur non essendo un obiettivo. Nell’imminenza della liberazione di Roma dopo lo sfondamento della Linea Gustav a Cassino, gli Alleati si posero il problema di come scompaginare le retrovie tedesche, imponendo loro la via della ritirata e seminando il caos nell’esercito nemico. «Tivoli non costituiva un obiettivo militare, ma lo era il suo nodo stradale che andava colpito – ha scritto Francesco M. Biscione in un saggio pubblicato nel 1984 e dedicato alla lotta di liberazione della cittadina tiburtina – con il bombardamento del 26 maggio 1944 gli Alleati conseguirono lo scopo di costringere i tedeschi ad una ritirata in ordine sparso, isolando i reparti già transitati sulla Tiburtina dal grosso delle truppe che fu costretto a passare per la Maremmana (le macerie costituivano – in un primo momento – un ostacolo invalicabile). Ma il vantaggio tattico che l’operazione comportava – prosegue Biscione – da una parte fu pagato ad un prezzo strabiliante in termine di vite umane e di distruzioni, dall’altro non fu adeguatamente sfruttato sul piano militare: nessuno, infatti, inseguì ed attaccò i tedeschi in ritirata».
I diari del Quartier Generale della 12ma Air Force confermano che si trattò di «attacchi mirati a creare posti di blocco per non dare vie di fuga alla ritirata tedesca dalla Valle del Liri e di supporto agli attacchi Alleati contro la postazione tedesca sui Colli Laziali». In particolare, secondo gli Alleati, da Arsoli le truppe tedesche si stavano muovendo anche in direzione Ovest sulla Tiburtina, finendo così per dover attraversare il territorio di Tivoli, perché «cercavano di andare a rafforzare la difesa di Roma». La strada statale 5 “Tiburtina Valeria” andava dunque resa inservibile. Ma qualcosa – c’è chi dice volontariamente per dare un segnale “politico” – andò storto.
Sul cielo di Tivoli, alle 10.30 del 26 maggio 1944, si presentarono 26 aerei B-25 Mitchell del 321° Bombardment Group (che era parte della 57ma Bombardment Wing della 12ma Air Force), decollati un’ora e mezza prima da Solenzara in Corsica. In particolare nell’azione furono impegnati 13 aerei del 446° Bomb Squadron e altri 13 del 448° Bomb Squadron. Furono sganciate su Tivoli, da un’altezza di 9.500 piedi (poco meno di tremila metri), ben 184 bombe dal peso di 500 libbre l’una (ovvero 227 Kg). Così fa impressione leggere i report della missione numero 305, che aveva come obiettivo: “Tivoli Town Road Block” e il target era disegnato in pieno centro, comprendendo al suo interno anche parte di Villa d’Este.
Dopo il lancio di centinaia di bombe, la precisione del raid (“bombing accuracy”) fu stimata in appena il 13%, mentre il giorno prima gli stessi piloti su Todi avevano messo a segno un 100%, tanto da vedersi promesso un encomio. Gli ordigni, insieme al nodo stradale, avevano polverizzato gran parte del centro storico. Con buona pace delle conclusioni dei report, secondo i quali vi era stata una “good concentration in target area” e “many hits on junction” (ovvero buona concentrazione nell’area bersaglio e molti colpi sullo svincolo stradale). A giudicare dalle foto, secondo gli Alleati, si era trattato di una missione “well accomplished” (ben compiuta).